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Affermare semplicemente che sia urgente “Fermare le armi in Ucraina!”, come molti pacifisti in Europa chiedono a gran voce, prima che un esercito di nonviolenti abbia circondato quel paese di un cordone umano e diplomatico che lo protegga e lo sorregga, può diventare una crudele beffa per il popolo ucraino

di Angelo Moretti su VITA NO PROFIT

Non è un periodo facile per il pacifismo europeo. La parola d’ordine “disarmo” non sembra reggere l’onda d’urto dovuta all’aggressione aperta di una potenza nucleare ad un popolo sovrano che le è limitrofo.

Di fronte ad una pioggia di missili diretta su una città affollata come Kyiv, o su stazioni ferroviarie e centri commerciali, scoprire che è stata una contraerea tedesca ad aver ridotto l’impatto di morte, rendendo innocui dieci missili su dodici come a Kremenchuk, non può non far pensare.

Un mondo armato è certamente un mondo più pericoloso, ma un popolo disarmato contro un aggressore che continua la sua avanzata è certamente più pericoloso oggi e in prospettiva.

Affermare semplicemente che sia urgente “Fermare le armi in Ucraina!”, come molti pacifisti in Europa chiedono a gran voce, prima che un esercito di nonviolenti abbia circondato quel paese di un cordone umano e diplomatico che lo protegga e lo sorregga, può diventare una crudele beffa per il popolo ucraino. Come ha scritto il professor Stefano Zamagni su Vita, ““Il pacifismo di resa, quello che per conseguire la pace è disposto a rinunciare alla libertà e ad accettare il sopruso, e che non considera che una pace senza libertà è un cimitero, non è un’opzione plausibile e tanto meno moralmente accettabile”.

L’appello che dovrebbe riunirci tutti dovrebbe essere piuttosto “Fermare l’aggressione in Ucraina!”.

Soprattutto per il dato che le arimi in Ucraina partono e arrivano dentro il territorio, mentre molti missili russi partono dal Mar Nero e piovono direttamente sulle teste degli ucraini, sventrando condomini, ospedali e fabbriche.

Altrimenti è come dire che la strage di Srebrenica dell’11 luglio di quasi trent’anni fa non ci ha insegnato nulla. Ottomila uomini e ragazzi furono trucidati per la loro appartenenza ad un’etnia islamica presa in odio dai militari della VRS guidati dal generale Mladic, sotto gli occhi dell’Onu che però non intervenne, pur sapendo cosa stesse accadendo in quei boschi: paradossalmente si compì un genocidio proprio perché la zona era stata dichiarata “una zona protetta demilitarizzata” da una risoluzione ONU.

Nonostante l’avanzata delle truppe di Mladic verso la zona protetta fosse facilmente visibile, nessuno intervenne per fermarla per un problema di regole di ingaggio. Quando la VRS entrò in Srebrenica prese in disparte tutti gli uomini dai dodici ai settantasette anni, i militari rassicurarono le mogli e le mamme che avrebbero solo interrogato quegli uomini, ed invece vennero tutti uccisi e sepolti in fosse comuni. I caschi blu olandesi erano di stanza lì e vennero allarmati dalle donne disperate, ma non intervennero. Né gli aerei Nato che sorvolavano normalmente lo spazio aereo dell’ex Jugoslavia hanno ritenuto di dover intervenire. L’esito fu l’eccidio che sappiamo e di cui ancora ci vergogniamo.

Oggi l’Ucraina è lo scenario di una enorme Srebrenica, chi ancora intende negarlo o ha ragioni ideologiche o di comodo o altro che francamente ci sfugge. Non ci sono “due belligeranti”, c’è un generale Mladic molto più potente e si chiama Putin e c’è una sola colonna di fuoco che va in un’unica direzione, da Mosca verso Kiev, passando per l’Est.

Come ci ha detto il sindaco Klitschko, accogliendo i sessanta pacifisti del MEAN nella Sala delle Colonne del suo municipio l’11 luglio scorso (nella foto), “l’aggressore non ha nessun interesse per il popolo ucraino, perché ci uccide, distrugge le nostre fabbriche e le nostre infrastrutture. L’aggressore vuole solo la nostra terra” (scarica qui l’instant book che racconta tutto di quelle giornate).

Ora la si può pensare come si vuole sul popolo ucraino e sulle origini motivazionali, ideologiche o propagandistiche della sua grande resistenza, ma il dato di realtà per il pacifismo dovrebbe essere uno e solo uno: va fermata l’aggressione.

Il dilemma del pacifismo organizzato andrebbe piuttosto spostato sul “come fare”.

Come ci ha detto il Nunzio Apostolico Visvaldas Kulbolkas, è importante “non voler interferire nelle decisioni del popolo ucraino e del Governo che li rappresenta su come vogliono difendere il loro Pese, la vita dei propri cittadini in primis i bambini e su come vogliono costruire il loro futuro. Giustamente avete scelto una dimensione diversa, quella della costruzione nonviolenta della pace”.

Il Nunzio ha parlato di tre categorie di persone di fronte alla guerra in Ucraina: chi appoggia e la promuove; chi resta a guardare rifugiandosi nel dire che questa non è l’unica guerra in corso, e chi prova a costruire la pace.

Uniamoci tutti a favore della difesa nonviolenta del popolo ucraino e quando saremo davvero pronti a farla, anche con i nostri corpi disarmati di cittadini europei, chiediamo che la pace abbia inizio con il disarmo, dell’aggressore e dell’aggredito. Ma solo dopo che avremo chiarito cosa faremmo noi pacifisti per l’Ucraina se quello scudo missilistico non ci fosse più.

L’idea del superamento della Nato e di una Europa più forte ed indipendente sul suo territorio è assolutamente un’idea legittima e niente affatto peregrina, dovrebbe essere l’auspicio di ogni fervente europeista, ma sappiamo che non è possibile cambiare una squadra di difesa mentre l’attacco avanza, oggi serve prima di tutto arrivare al cessate il fuoco, fermare l’aggressione, poi si dovrà immediatamente discutere delle regole future di tutti i giocatori in campo.