di Francesco Boffa
Entro per la prima volta nella sede del SAI – Sistema Accoglienza e Integrazione – di San Bartolomeo in Galdo. Mi accoglie Donatella, che del SAI è la coordinatrice, e subito la mia attenzione viene catturata da dei manufatti artigianali posizionati sul tavolo all’ingresso, e, più in generale, da un’atmosfera familiare ed accogliente.
“Questi sono stati realizzati dai beneficiari del nostro progetto di accoglienza. Il nostro SAI è molto dinamico, svolgiamo molte attività e siamo riusciti a toglierci molte soddisfazioni.”
Le chiedo, per prima cosa, come vive il suo ruolo e la sua quotidianità qui a San Bartolomeo.
“Dal 2019 sono coordinatrice del SAI, la cui nascita è coincisa con la chiusura del CAS che c’era prima. La differenza è stata notevole: adesso c’è una progettualità insieme ai beneficiari, e insieme a loro, seguendone le inclinazioni, ti dai dei tempi e degli obiettivi.
La difficoltà principale è legata perlopiù alla collocazione del posto, ad esempio per andare a Benevento abbiamo pochissimi pullman, di cui l’ultimo al ritorno è alle 16. Anche semplicemente frequentare un corso di formazione per i nostri beneficiari diventa complicato, significa fare solo quello in tutta la giornata e non è nemmeno detto che ti trovi con gli orari. L’altra faccia della medaglia è che si crea un forte senso di coesione tra loro. Oltre al fatto che siamo riusciti a fare un ottimo lavoro di rete con le associazioni ed aziende del territorio.
La Sole e Sapori, azienda di trasformazione di pomodori, su tutte. L’Azienda, prima di lavorare, forma i beneficiari, che conseguono il corso HACCP, e soprattutto molti di loro vengono assunti al termine del tirocinio. Anche con la pizzeria che è qui siamo riusciti a creare degli inserimenti lavorativi.
Dei ragazzi che abbiamo inserito lo scorso anno in estate, 7 sono rimasti tutto l’anno e sono tuttora contrattualizzati, fino alla fine del percorso di accoglienza, quando decideranno se restare sul territorio o meno. C’è un rapporto di lavoro stabile e l’azienda è riuscita a creare un bel clima, facendo anche cene aziendali, tornei di calcetto, e concordando con gli stessi ragazzi le turnazioni di lavoro”
Domando a Donatella se prima di questa esperienza già si occupasse di attività rientranti nell’ambito del sociale.
“Nel 2014 insieme ad un’altra socia, sempre di San Bartolomeo, ho fondato una cooperativa sociale, “Humana”, per cercare di rispondere alle carenze di servizi nel territorio.
All’inizio non fu semplice, per tutti i problemi che spesso comporta lavorare con il pubblico.
Nonostante le difficoltà però riuscimmo, tra le altre cose, ad aprire un asilo nido che qui non c’era.
Tramite un bando, inoltre, riuscimmo ad entrare come co-gestori per i Progetti Terapeutici Riabilitativi Individualizzati con Budget di Salute. Entrammo in questo elenco, dove siamo ancora iscritti, con diverse prese in carico, ed ai PTRI con inserimenti lavorativi iniziali, poi si sono aggiunte anche delle prese in carico in Case Habitat situate a Morcone.
Infine ogni estate organizziamo la ludoteca con campi estivi.
In realtà, anche prima, ho sempre lavorato nell’ambito: mi occupavo di educativa domiciliare su nuclei disagiati per altre cooperative. Andavo nelle abitazioni a svolgere ruolo di educatore per nuclei che vivevano fragilità di ogni tipo.
L’ho fatto anche durante gli studi in Servizio Sociale, che iniziai a Firenze ma che conclusi a Campobasso, quando decisi di tornare per stare vicino a familiari con problemi di salute. Non potevo stare lontana visto che serviva il mio aiuto.
Ho svolto anche un anno di servizio civile in una casa famiglia per bambini. I miei studi sono stati sempre associati al lavoro, ho sempre voluto vedere la pratica sul campo di quello che intanto studiavo.”
Le chiedo come vivesse, soprattutto ai primi tempi, il fatto di avere a che fare con realtà difficili. E quale ricordo le hanno lasciato queste prime esperienze.
“Non è stato semplice ma fin da piccola quello che sentivo era aiutare le persone. Da piccola non avevo idea del mestiere specifico ma sapevo che volevo aiutare l’altro. Quello non ho mai sopportato è quando qualcuno si approfitta di persone più deboli. Pensare di farne un lavoro mi ha spinto a fare questo.
Fin dalla scelta dell’Università la mia volontà è stata di svolgere una professione che mi permettesse di tendere una mano verso chi ne ha più bisogno.”
Tematica ricorrente, soprattutto nei piccoli comuni, è quella della reazione, spesso timorosa, dei residenti rispetto all’arrivo di persone da mondi lontani, con culture e abitudini differenti dalle nostre. Stesso discorso quando si tratta di realizzare attività finora sconosciute alle dinamiche locali.
Le chiedo pertanto come sono state vissute le attività della cooperativa, prima, e del SAI, poi, all’interno del paese.
“Qui non c’era proprio cultura del nido, quando abbiamo aperto avevamo 4 iscrizioni, ora in media siamo una ventina. È un servizio che è stato molto apprezzato.
Stessa cosa per il SAI, nato in contemporanea alla chiusura del CAS. E se all’inizio si poteva pensare ad un servizio simile, ci è voluto poco affinché tutti si accorgessero, anche grazie al lavoro di sensibilizzazione di noi operatori, del nostro lavoro quotidiano, fatto di controlli, istruzione, lavoro, e tutti possono vedere i nostri beneficiari andare a scuola o a lavoro a piedi o in bici. Inoltre c’è un limite di persone che possono vivere in un’abitazione, rispetto a prima in cui l’affluenza nelle stesse abitazioni era ben maggiore.
Oltretutto è un progetto di titolarità del comune, in aggiunta alla mia figura c’è quella del Sindaco a garantire. Lui tiene molto a questo progetto, è sempre presente e pronto a risolvere qualsiasi problematica. Il centro stesso, dove c’è sempre qualcuno, rappresenta un riferimento per chiunque dovesse avere problemi con i beneficiari. Ed inoltre c’è una continua collaborazione con le istituzioni e le forze dell’ordine. Questo controllo e linearità delle procedure ha garantito una buona integrazione con la comunità.
Rispetto a un SAI con famiglie, dove magari misuri il livello di integrazione vedendo i bambini che giocano in piazza o che vanno a scuola con altri bambini del posto, qui, dove ci sono solo uomini adulti, lo puoi notare dall’atmosfera che si crea nei luoghi di lavoro e nei momenti di svago da questo, quando insieme giocano a calcetto, o mangiano una pizza insieme, riuscendo a creare un’atmosfera da amici di vecchia data.
Sono entrati nella nostra vita di tutti i giorni e questo per me rappresenta il modello di integrazione ideale da perseguire.”