di Gabriella Debora Giorgione –
Lidia gli sistema il computer che ha problemi di audio, oggi. È una splendida ragazza di tredici anni, la figlia di Antonio Sauchella, Operatore Socio Sanitario di “Sale della Terra”.
Non lo conosco bene, anzi direi quasi affatto. L’ho incrociato solo qualche volta, una stretta di mano e via, ma prima di rivederlo oggi conservavo di lui lo sguardo, di quelli che ti guardano davvero, anche solo per qualche secondo.
Siamo a Foglianise, il paese di origine di sua moglie Cinzia dalla quale Antonio ha avuto anche un altro figlio, Mario, di diciannove anni. Antonio, invece, di anni ne ha quarantasei e secondo me non li dimostra: «Mi sono conservato bene quando sono stato al fresco», mi dice ridendo ed io capisco che non è uno scherzo e che sta parlando proprio del carcere.
«A quattordici anni ho voluto provare il primo spinello – mi rivela – ero allo stadio a Napoli, Napoli-Foggia, girava tra i miei amici e avevo una forte curiosità di capire cosa si provasse. Ero ingenuo, non sapevo niente della pericolosità delle sostanze e così da quella sera ho continuato a frequentare amici che frequentavano droga. Io all’epoca già lavoravo come capo squadra in una ditta di segnaletica stradale, avevo uno stipendio, ero indipendente quindi “libero” di fare quello che volevo», mi rivela.
«Ma allora perché? Cosa ti mancava?»
«La famiglia – ci va dritto, Antonio – ero figlio unico, lo sono stato per sedici anni prima che arrivasse mio fratello. Davanti a me, ho visto morire altre sette fratelli tra aborti e decessi nei primi mesi di vita. Su di me avevo troppe aspettative, sentivo il peso enorme soprattutto di mio padre del quale avevo quasi terrore. Sai quando tu da piccolo dai la mano ad un padre e non senti il prurito sotto la pelle per l’emozione? Anche mamma subiva molto il carattere di papà. Io le stavo vicino come potevo, ma a quattordici anni decisi di uscire di casa e lavorare per essere indipendente e libero da mio padre», racconta Antonio tutto d’un fiato.
Adesso mamma Maria non c’è più, «è morta mentre ero in carcere, aveva 64 anni», dice Antonio, che sta finendo i lavori di ristrutturazione della casa di Torrecuso, dov’è nato e vuole tornare, e dove abitava prima del suo stop forzato: «Mia moglie e i bambini sono vissuti qui a Foglianise, quando ero in carcere. Mia suocera è stata una donna eccezionale, si è presa cura di loro durante tutto questo tempo, le devo moltissimo». È per questo che Antonio ha chiamato sua figlia come sua suocera, un segno di riconoscimento per la dedizione che la signora Lidia ha mostrato in tutti questi anni, peraltro difficilissimi anche per lei, rimasta sola dopo l’abbandono del marito.
A ventun anni Antonio cambia lavoro, viene assunto da una ditta di trasporti e viaggiava in tutta Europa.
Nel frattempo, Antonio e Cinzia nel 2002 si sposano, nel 2003 nasce Mario. Ma la vita di Antonio aveva preso una strada difficile: «Ho incontrato l’eroina e da quella difficilmente esci vivo – ammette – dentro di me avevo voglia di smettere e dare a mio figlio una vita normale, con un padre di cui essere orgoglioso. Ma ormai avevo attaccato un vagone sbagliato al mio treno e non sono riuscito più a smettere».
E’ il 29 settembre 2011, il giorno del suo compleanno: Antonio viene beccato in Francia con 500 chili di sostanze stupefacenti nel camion: un anno e tre mesi.
«Quando sono entrato ho smesso di botto di assumere sostanze, non ho voluto neanche quelle “di transizione”. L’impatto è stato con un omicida nella mia stessa cella e centinaia di topi giganti che passeggiavano in tutto il carcere, un incubo. Lì ho pensato che dovevo uscirne vivo, che dovevo essere lucido, guardingo, difendermi da quello che poteva accadermi ancora peggio della droga e dei miei stessi sbagli», mi racconta con gli occhi lucidi.
La prima reazione di Antonio è il lavoro: subito dopo l’ingresso nel carcere, lavora al magazzino e guadagna per non dipendere dagli altri anche per uno shampoo ed essere così “sottomesso” in un penitenziario di oltre mille e seicento ospiti, oltre a lui. E poi prega. Prega tanto. Non con il Vangelo, ma con il Corano.
Anni prima, infatti, durante un viaggio in Spagna prima e in Germania dopo, entra per curiosità in Moschea e resta colpito dal modo intenso, «a ginocchia a terra, prostrati davanti a Dio», dei musulmani.
Nel carcere di Montpellier Antonio sente dentro di sé crescere intensamente il desiderio di preghiera e lo asseconda, convertendosi. L’anno di carcere trascorre, per Antonio è tempo di uscire.
«Ma sapevo che fuori mi attendeva un mandato di cattura per traffico internazionale di stupefacenti»: per lui si aprono le porte di Rebibbia, a Roma, e poi di Poggioreale, a Napoli.
«Quando ho sentito che mi portavano a Poggioreale ho pensato che da lì non sarei uscito vivo. In portineria dissero: “Assegnato alla Stanza 90” ed io morii letteralmente di paura. Tra Roma e Napoli ho frequentato praticamente l’Università della malavita. Eravamo undici in una cella, letti a castello, erano liti di sopravvivenza quotidiane, si accoltellavano con le lamette, erano minacce continue. Io dentro di me pregavo e capivo ogni giorno di più che io non appartenevo a quel mondo e che dovevo tenermene lontano. Ci è voluta tutta la mia forza, mentre scrivevo a casa dicendo invece che stavo bene, che ero felice, che ero fortissimo». Ho i brividi.
È il 28 aprile del 2017, è l’anniversario del suo matrimonio con Cinzia, quando Antonio finalmente esce. Per lui, avevano chiesto trentanove anni di carcere, poi una serie di vicissitudini giudiziarie fino alla Cassazione che interviene su tutto il processo. Finalmente torna a casa. Ma lo raggiunge una telefonata dei Carabinieri che gli impongono il divieto di dimora.
«Ero disperato, non sapevo davvero dove andare, a chi chiedere aiuto, tremavo all’idea di poter sbagliare di nuovo perché avevo bisogno di aiuto, di un qualsiasi aiuto – racconta Antonio – poi mi ricordo di Donato De Marco, col quale mi conoscevo, da ragazzo a Torrecuso. Sapevo che lui lavorava a “Sale della Terra” che faceva progetti di reinserimento per gli ex detenuti e così ho provato a chiedere aiuto a lui».
De Marco e Angelo Moretti lo incontrano: per Antonio la destinazione è il Borgo sociale di Roccabascerana, dove però gli danno solo un mese di accoglienza, ma lui «Ce l’ho messa tutta, avevo una voglia di lavorare che mi scoppiava dentro, ero felice di essere libero, ho messo tutto me stesso».
Deve essere stato proprio così, perché quel mese si trasforma in tre e quei tre mesi in un contratto di assunzione e ad Antonio viene assegnata la cura di Alessio, un giovane uomo con problemi di sofferenza psichica, con il quale stabilisce un legame straordinario: «Ad Alessio voglio bene come ad un fratello, con lui sto imparando tantissimo, mi sto mettendo alla prova come persona e come operatore, Anzi, guardo molto in alto perché capisco che io, con tutto quello che ho passato, posso dare tanta forza e mettere a disposizione la mia sofferenza per alleviare quella degli altri», dice Antonio.
E al sogno di tornare a vivere nella sua Torrecuso oggi Antonio ha aggiunto un tassello di prestigio: «Ho ottenuto che Torrecuso aderisse ai “Borghi della Lettura” per la “Collana dei Fragili”. Se in una comunità entra la lettura, entrano nuove parole, allora entrano nuove idee», dice orgoglioso.
«Come ti senti, adesso, Antonio?»
«Vedi, Gabriella, io sono stato “ultimo” ed è bruttissimo, Oggi non voglio essere “primo” perché anche quello sarebbe brutto. Ma io oggi voglio essere quello che mette la forza nell’abbraccio quello a cui dai la mano e senti nel cuore il prurito dell’emozione e dell’orgoglio di averlo come padre, come amico, come collega di lavoro».