di Francesco Boffa
Adele Caporaso è la responsabile della Piattaforma Libertà Partecipate, nata con l’obiettivo di promuovere la funzione rieducativa della pena e la risocializzazione del detenuto, secondo quanto stabilito dall’Ordinamento Penitenziario e dalla Costituzione.
“Troppo spesso, nell’immaginario comune, al termine reato viene associata la pena, intesa come punizione per quella colpa. Se da un lato è giusto che si paghi per ciò che si è fatto, dall’altro è importante, per la persona ma soprattutto per la società tutta, che sia data una seconda possibilità di reintegrarsi, a maggior ragione se si è sempre vissuti in contesti difficili. L’opinione pubblica il più delle volte vuole che ad uno sbaglio segua la “giusta punizione”: sarebbe la soluzione più facile da adottare ma incostituzionale perché lontana dall’ attuare la funzione riabilitativa della pena.”
L’intervista con Adele inizia da una riflessione su un dato pregno di certezze ma in realtà non così scontato: nei tempi che viviamo, segnati da giustizialismo e poca propensione all’ascolto e all’apertura verso l’altro, l’applicazione della funzione rieducativa della pena appare spesso come un concetto astratto. Quanti sono, al contrario, i detenuti che peggiorano la propria condizione una volta entrati in carcere, vedendosi annullata del tutto ogni possibilità di reintegrarsi in società e ritrovandosi con un pregiudizio incancellabile a vita? Il luogo dove discutiamo di questo è, non a caso, il Caffè dell’Orto, che finora ha accolto e reintegrato 150 persone in misure alternative alla detenzione, con un’evidenza empirica che ha dimostrato come la recidiva del reato risulti molto più bassa rispetto a chi ha scontato la propria pena in carcere.
In Libertà Partecipate vengono identificati luoghi come il Caffè dell’Orto per svolgere percorsi in misura alternativa che riescano a valorizzare il potenziale umano e non dei destinatari e favorire la risocializzazione degli stessi.
“Cominciai a sentir parlare della Piattaforma quando mi approcciai al mondo del sociale e del volontariato con il Centro Sociale Polifunzionale “É più bello insieme”: tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 presi parte ad un corso di formazione per “operatore del welfare di cittadinanza”, legato al CSP. Un ambiente a me già familiare per le frequentazioni risalenti agli anni del volontariato in parrocchia e nell’Unitalsi. Ero verso la fine degli studi in psicologia e mi dissi: perché non provare!?
Il corso fu davvero molto interessante e arricchente e, a conclusione, Angelo mi propose una collaborazione con il nascente Centro Ascolto della Caritas Diocesana di Benevento: era l’occasione per me di trasformare in opera segno il bagaglio di conoscenze. A partire da “Lascia un segno”, il primo campo di servizio e di animazione al volontariato territoriale, ci rimboccammo le maniche e iniziammo il lavoro: dopo aver predisposto ad hoc quella che sarebbe diventata la scheda anamnestica del centro ascolto e ricavato ed allestito uno spazio adatto all’accoglienza, ci promettemmo di andare oltre una logica assistenzialista e di cominciare ad attivare delle vere e proprie prese in carico integrate.
Nello specifico iniziammo per la prima volta a stilare un elenco di coloro che usufruivano del servizio mensa, aggiornando i dati sul numero degli accessi e sull’evoluzione delle loro situazioni. L’équipe nel frattempo si arricchiva di diverse figure professionali e motivate e l’assetto multidisciplinare creatosi ci permise di avere uno sguardo più ampio e globale sulle prese in carico. In linea con quanto era emerso al corso di operatore del welfare di cittadinanza, si faceva strada l’esigenza di creare una rete sociale, con il fine di valorizzare la singola persona: non come accentratori di quella presa in carico bensì promotori e testimoni di interventi di responsabilizzazione dell’intera collettività. Ricordo con soddisfazione ed entusiasmo la grande apertura ad enti e servizi del territorio e le sinergiche collaborazioni volte a concretizzare i buoni propositi, anche attraverso la continua formazione di cui la Caritas si faceva promotrice ospitando figure come gli operatori del carcere, dell’UEPE – Ufficio di Esecuzione Penale Esterna – e assistenti sociali del Comune di Benevento.”
Il ruolo del Centro Ascolto dove Adele ha esordito è tanto importante quanto delicato: è il primo “nodo” della “rete”, dove l’iniziale intervento di discernimento risulta decisivo nell’indirizzare la presa in carico e nell’identificare le cause alla base del bisogno portato non sempre espresso (difficoltà economiche, tensioni familiari, disagio sociale, etc)
“É una fase delicata perché da un lato senti la responsabilità rispetto alla persona che si apre a te, dall’altro devi avere la capacità di cogliere il malessere “nascosto” che spesso resta volutamente taciuto.
Fui nominata responsabile della Piattaforma nel 2014, facendo seguito all’operato nel settore penale inizialmente affidato ad altra collega. A fine 2012 si tenne un prestigioso convegno presso il seminario arcivescovile, sul tema della pena alternativa, presieduto dall’Onorevole e Avv. Alberto Simeone. Fu il mio primo intervento pubblico dove, in concertazione con gli altri Enti ed Istituzioni partner del territorio, posi l’accento sulle buone prassi delle prese in carico rivolte a soggetti con problemi nel penale, spesso collegati ad altri problemi, economici, sociali, di salute, ecc. nell’ottica in cui il disagio genera altro disagio. Fu un gran successo per le risonanze pubbliche oltre che personali: fui complimentata persino dal Presidente della Camera Penale del Tribunale di Benevento! Il nostro operato stava tracciando i passi verso una rivoluzione del sistema dell’esecuzione penale ed, evidentemente, lì stavo tracciando anche il mio percorso nel mondo della giustizia.
Da responsabile del Centro Ascolto già affrontavo prese in carico globali.
Nel frattempo, quando ci fu il trasferimento della sede Caritas presso l’attuale Cittadella della Carità, furono individuati i “nodi”, figure di riferimento delle varie aree (immigrazione, disabilità, welfare) ed io fui nominata nodo dell’area Welfare, chiudendo il ciclo iniziato con il corso sul Welfare di cittadinanza.”
È proprio in quegli anni che fu pubblicato uno studio scientifico che certificò la diminuzione della recidiva del reato per le persone che seguivano percorsi in misura alternativa alla detenzione.
“Si iniziò a dare un’impronta scientifica a ciò che stavamo facendo. I dati parlavano chiaro ed i numeri iniziavano a diventare importanti. Da un’impressione iniziale si passò ad un metodo scientifico di lavoro vero e proprio: dopo i primi percorsi ben riusciti iniziavano ad arrivare richieste da avvocati, da privati, molti dei quali anche fuori dalla provincia di Benevento.”
Apro una piccola parentesi sul ruolo del centro ascolto: quanto può essere difficile ascoltare storie di sofferenza ogni giorno e non lasciarsi coinvolgere emotivamente?
“Spesso può capitare di andare in crisi, come quando ti senti impotente per certe situazioni, o quando in uno spazio di ascolto la persona si lascia andare alla commozione e diventa difficile anche trattenere le lacrime. L’esperienza, gli studi ed il mio carattere mi hanno aiutata, perché i momenti no ci sono ma si superano non perdendo mai di vista gli obiettivi, con un sguardo alla strada percorsa (seppur a volte in salita) e ai successi raggiunti, come ad esempio alla buona riuscita di un caso di sfratto in sinergia con i servizi sociali.
Certe storie ti entrano inevitabilmente dentro e ti segnano, è un lavoro che sì ti arricchisce, ti permette di esserci per l’Altro senza esimerti però da un continuo esame personale (“ho davvero fatto tutto ciò che potevo per aiutare quella persona?!). E’ da questa “frizione interiore” che prende le mosse il mio agito, preludio di cambiamento e miglioramento. Un operato senza un’autoanalisi appartiene solamente al vuoto rappresentato da un mondo astratto che non esiste. In questo è molto importante fare squadra e non affrontare da sola i percorsi.”
Le chiedo se c’è stata qualche storia in particolare che rappresenta l’esempio per la buona riuscita delle misure alternative alla pena.
“Siamo al Caffè dell’Orto e penso che la storia di Gedi rappresenta la testimonianza per eccellenza della buona integrazione.
All’interno della rete sociale che proviamo a tessere quotidianamente, per il reo qualsiasi figura che incontra lungo il suo cammino può diventare preludio di salvezza: un educatore, un volontario del carcere, un agente del penitenziario capace di intercettare quel bisogno di redenzione, di cogliere un potenziale, ma soprattutto di infondere fiducia in lui, valorizzandolo come persona non come colpevole.
Molte persone che vengono da mondi delinquenziali non si sono mai potuti confrontare in un ambiente sano e magari sono anche all’oscuro di loro innaturali capacità: un mondo interiore che può rivelarsi solo se calati in certi contesti capaci di valorizzarti e di riconoscerti non per il reato commesso ma per un vero e proprio talento.
Il Progetto “Buono e giusto” che portiamo avanti da anni, ci ha fatto scoprire, soprattutto qui al Caffè dell’Orto, dei ragazzi stupendi, che hanno lavorato con trasporto e tanta passione nel comparto dell’Agricoltura sociale, dall’orto alla serra, dalla falegnameria al bricolage; Francesco De Marco ci ha confessato di essere riuscito a terminare dei lavori in sospeso da tempo, mostrando grande gioia per il risultato raggiunto: relazioni di reciprocità instaurate tra chi fa un percorso ed il personale tutto del soggetto ospitante.”
10 anni di Centro Ascolto, poi la spinta al cambiamento.
“Dopo un po’ di anni avvertii l’esigenza di dover fare una scelta, di darmi dei nuovi obiettivi, di investire tutte le mie energie nella Piattaforma Libertà Partecipate dove si necessitava di maggiore impegno, tempo e dedizione e dove ancora tanto va fatto: lasciato il Centro Ascolto, dal 2020 mi dedico in via esclusiva al coordinamento dell’area penale.
Ad oggi sono soddisfatta del mio ruolo, mi piace, mi appassiona e mi fa anche arrabbiare, soprattutto quando penso a persone giovani con una fedina penale già segnata. L’equilibrio tra empatia e rigore è una componente fondamentale: c’è chi cerca di entrare nelle tue corde per ricavare benefici, c’è chi fa fatica ad aprirsi a te, insomma va tenuta una certa distanza, un distacco utile a raggiungere obiettivi riabilitativi. Ci sono poi coloro che non ti riconoscono proprio nel tuo ruolo perché nella loro cultura e mentalità sono i soli a detenere un potere, a meritare quella malsana forma di rispetto.
Ma è un lavoro capace di riempirmi di enormi soddisfazioni: sono rimasta molto legata ad un progetto di cui mi occupai nel 2019: “ Prison – visiting Genitori Dentro”, all’interno dell’iniziativa del Garante dei Detenuti “Oltre le Mura”, presentato dalla cooperativa Il Melograno e rivolto alle donne detenute madri.
Per 4 mesi, 2 volte alla settimana, offrivamo un servizio di prossimità portando il nostro contributo in carcere. Proposi un laboratorio di pasticceria, utilizzando la cucina fuori dall’orario previsto, riuscendo a coinvolgere persino gli operatori del carcere, che si misero a disposizione intuita la bontà del progetto.
In cucina le mamme erano davvero fantastiche, mostrarono una creatività fuori dal comune nel fare tesoro dei pochi strumenti a disposizioni (i soli autorizzati all’ingresso in istituto) tra questi i vasetti di stagnola delle marmellate che furono riciclati per dare forma a delle piccole crostatine che avrebbero poi presentato al pranzo del giorno dopo. Un pranzo fuori dal grigiore dell’ordinario ed impreziosito da un tocco di propria produzione. Mi colpì in particolare una mamma che durante la preparazione con gli occhi commossi mi disse: ‘Grazie, perché in questo momento sto pensando a quando preparavo i dolci con mia figlia nella cucina di casa’. Fu un momento di grande emozione e felicità, ero riuscita a “portare questa mamma fuori dalle mura carcerarie”, liberandola nel cuore e nel pensiero”.
Il laboratorio di pasticceria rappresenta una piccola rivoluzione, una vera e propria conquista all’interno della storia del mondo carcerario che si apre al mondo esterno del sociale, resa possibile anche e soprattutto alla lungimiranza del direttore del carcere, del personale dell’area educativa, degli agenti di polizia penitenziaria oltre che alla volontà dei detenuti stessi.
Un insieme di intenti, un lavoro di rete in cui ognuno svolge un ruolo fondamentale per rendere possibile il cambiamento.
Il modus operandi della Piattaforma Libertà Partecipate incentrato sul case management rappresenta un percorso comunitario non individualistico, realizzato nel rispetto della diversità di ruolo, di cultura, di condizione personale: ogni passo percorso permette a ciascuno di riappropriarsi della propria identità di uomo o di donna, ingrigita e talvolta assopita dalla detenzione.
“Il maggior successo alla base del mio servizio è quello di poter lavorare con uomini e donne ristretti sì nel corpo, ma poterli rendere “ liberi” nell’ amore qualunque ne sia la forma e l’espressione.”